martedì 19 marzo 2019

formiconi e fabbriche dismesse

Poco fuori del mio paese esiste questa fabbrica dimessa. L'ho visitata insieme ad un mio amico - l'idea era di arrampicarsi addirittura sulla torre attraverso la scala - ma per ora l'impresa è rimandata, anche per la possibile presenza di polvere microfine d'amianto (il sito dovrebbe essere già stato bonificato, ma in questo paese evidentemente i lavori procedono infelici. Pazienza.
Da vedere i neri grossi formiconi correre sui muri. Non ne vedevo così dalla quinta elementare.








domenica 24 febbraio 2019

tramonto


un altro tramonto visto dal cortile di casa mia

traduzioni proustiane

Riporto un estratto da un articolo in merito a due curiosi errori nella traduzione italiana dell'opera di Proust. Il pdf completo lo potete trovare qui http://dspace.unitus.it/bitstream/2067/798/1/errori%20dolosi%20o%20colposi.pdf
Se non vi va di leggere tutto il post, saltate immediatamente alla parte in grassetto. Attendo suggerimenti dai visitatori francesi parlanti l'italiano decente. Sto seriamente pensando di analizzare l'intera opera proustiana riportandone gli estratti che ritengo significativi. Una tale analisi non mi risulta sia mai stata compiuta in italiano. Si vedrà, quanto basta per compiuta missione.

[...] Tra i relatori ci fu anche Raboni il quale, in
un bellissimo intervento, illustrò i vari aspetti della “poetica della
traduzione” cui si era attenuto. Il punto fondamentale della sua
impostazione è la fedeltà all‟originale. Ecco la frase più significativa: “Lo
scrittore che traduce deve sentirsi autore solo della propria subordinazione,
del proprio annientamento: chi, in modo premeditato o colposo, appone il
proprio marchio d‟autore al testo della traduzione, tradisce, prima che
l‟autore tradotto, se stesso in quanto autore dell‟unica opera creativa che, in
quel momento e in quell‟ambito, gli compete, cioè, appunto, l‟opera (il
testo) del proprio annientamento".
Secondo Raboni, il peccato mortale di un traduttore non consiste
nel fatto di commettere qualche eventuale errore, certo spiacevole, per
distrazione, per fretta o forse anche per scarsa conoscenza della lingua da
cui si traduce se non addirittura di quella in cui si traduce (cioè la lingua
italiana). Questi in fondo sono peccati veniali, perdonabili. L‟unico errore
imperdonabile è voler “personalizzare” il testo, proiettando su di esso la
propria sensibilità, i propri gusti, la propria visione del mondo. Questa
“annessione” imperialistica del testo può essere, secondo lui, il risultato di
un comportamento premeditato, o doloso o soltanto colposo. Talvolta non è
facile stabilire se il mancato autoannientamento comporti una certa dose di
volontarietà oppure sia casuale o inconsapevole. Dopo questa lunga ma
necessaria premessa, esaminiamo alcuni casi concreti, soffermandoci su un
paio di errori presenti nelle traduzioni di Du côté de chez Swann: un
bizzarro errore di Natalia Ginzburg nel capitolo Combray, e una difficoltà
grammaticale nell‟ultima pagina di Un amour de Swann, che stranamente
ha portato fuori strada, in un quasi universale disastro, tutti i traduttori di
tutte le nazioni della Terra.
Alla p. 19 della traduzione di Natalia , leggiamo che la nonna del
Narratore, ogni volta che può, fa volentieri un giretto in giardino e ne
approfitta per “strappare surrettiziamente al passaggio qualche bocciolo e
dare così alle rose un po‟ di naturalezza, come una madre che passa le mani
nei capelli del figlio che il parrucchiere ha troppo schiacciati, per farli più
gonfi”. A parte il fatto che quell‟avverbio “surrettiziamente” in italiano
suona un po‟ astratto e burocratico rispetto a un gesto così semplice, ciò
che per la Ginzburg la nonna strappa sono quindi i boccioli delle rose.
Raboni invece, e dopo di lui anche Maria Teresa Nessi Somaini per
l‟edizione BUR, ci dice che la nonna strappa furtivamente “qualche
sostegno dei rosai” (“Meridiani”, vol. I, p. 18). Cosa c‟è nel testo francese?
C‟è la parola “tuteurs”, che indica appunto ciò che i giardinieri usano per
aiutare a salire e a crescere le rose rampicanti, o anche quelle a cespuglio,
quando sono ancora fragili. Insomma, Proust ci vuol dire che la nonna ha
rousseauvianamente fiducia nella bontà della natura e dei suoi liberi istinti.
Oggi definiremmo la sua ideologia “politically correct” o “liberal”, nel
senso statunitense del termine. Ella non sopporta tutto ciò che, a fin di
bene, pretende di limitare la libertà e la spontaneità. Lo stesso ottimismo
“naturista” che la spinge a strappare i sostegni per lasciare che le rose
crescano con naturalezza e non secondo un ordine precostituito, la induce a
credere che non si debba avere timore di far leggere anche a un bambino
come il Narratore le grandi opere dello Spirito umano, e infatti, se non le
fosse stato impedito, gli avrebbe regalato per il compleanno dei libri “per
adulti”: Indiana di George Sand, le poesie di Musset e qualcosa di
Rousseau. E‟ convinta che, se un libro è bello, non possa che far bene alla
salute psicologica e morale di un bambino. Questa ideologia generosa ma,
secondo il Narratore adulto, ingenua, viene a più riprese contraddetta e
ridicolizzata dalle vicende successivamente narrate. Chi rilegge queste
pagine dopo esser giunto alla fine del Temps retrouvé capisce, se ha avuto
occhi per vedere (e soprattutto se ha letto le mie note), che qui Proust vuole
prendere in giro la nonna, le dà garbatamente della cretina, e, insieme a lei,
dà gentilmente del cretino a tutti coloro che, per così dire, negano il
cosiddetto “peccato originale” e pensano che, per risolvere qualsivoglia
problema, sia sufficiente abbandonarsi alla Natura, madre benigna.
Possibile che Natalia Ginzburg non sapesse che “tuteurs” non può
assolutamente significare “boccioli”? In altre parole, questo errore,
veramente “gigantesque”, è colposo o doloso e premeditato, per usare la
terminologia raboniana? E‟ un errore talmente colossale che mi sono detto:
«Forse c‟era un refuso nel testo francese che Natalia aveva in mano. Forse
nella vecchia “édition blanche” di Gallimard in 16 volumi, prima della
Pléiade del 1954, non c‟era “tuteurs”, ma qualche altra parola». Ed ho
controllato su un esemplare del 1919, di proprietà dei bisnipoti di Antonio
Baldini. No. Anche lì si legge “tuteurs”. Quindi Natalia lo sapeva
benissimo. Scarsa conoscenza del francese? Distrazione? Fretta? O dolo?
Pur essendo tendenzialmente un innocentista, in questo caso
propendo per il giustizialismo, e mi dichiaro colpevolista, perché ho troppa
stima della scrittrice e non riesco ad accettare l‟ipotesi che
involontariamente possa aver commesso un errore da principiante. Secondo
me, Natalia ha voluto “migliorare Proust”. E‟ una correzione premeditata.
E‟, secondo le categorie di Raboni, un peccato mortale. Perché lo ha fatto?
Una spiegazione minimalista potrebbe essere che la parola
“sostegni” le sia sembrata scarsamente poetica e un po‟ tecnica, mentre
“boccioli” è pascoliano e musicale. Ma io credo che ci sia una ragione più
profonda, legata a quella “critica dell‟ideologia naturista” cui ho accennato.
Natalia ha voluto correggere non solo il lessico di Proust, ma il suo
pensiero, forse per andare incontro a quello che era lo spirito dei tempi, lo
“Zeitgeist” nell‟Italia resistenziale e postresistenziale del 1946 (ma, come
ci dice lei stessa, aveva cominciato a tradurre queste prime pagine di Swann
molto prima, a partire dal 1937). Intelligentemente, Natalia ha capito che
l‟intenzione di Proust è ironica. Ha capito che Proust vuole criticare e
respingere la “filosofia” della nonna così come si manifesta in questo gesto
di strappare qualcosa. Natalia capisce benissimo che, se la nonna strappasse
dei sostegni, la condanna proustiana colpirebbe un atteggiamento
“ottimista/progressista/liberal/libertario”, se invece la nonna strappasse dei
boccioli, il messaggio diventerebbe di segno opposto: sarebbe criticato il
comportamento di chi vuol “correggere” la natura, di chi vuole costringere,
censurare, educare secondo schemi razionalisti (o pessimisti). Ne
risulterebbe avvalorata l'interpretazione di Proust in chiave
schopenhaueriana/portroyalista, e ciò avrebbe reso evidente a tutti i lettori
dell‟Italia post-bellica l‟incompatibilità tra Proust e Gramsci. Sarebbe
emersa alla luce del sole una delle contraddizioni della linea culturale
einaudiana, tendente a riassorbire e utilizzare l‟intera letteratura
contemporanea (anche quella che i teorici del realismo socialista e lo stesso
Lukacs avevano condannato), occultando il più possibile le diversità, per
costruire o rafforzare sempre più un‟egemonia che voleva essere funzionale
a quel progetto politico liberal/comunista (vera e propria “coincidentia
oppositorum”). Insomma: pur di mascherare la mastodontica antitesi
esistente tra la concezione gramsciana della cultura e quella di Proust,
Natalia è disposta a trasformare dei sostegni in boccioli, è disposta a
fingere di non sapere il francese e di non possedere un qualunque, banale dizionario.
D‟altra parte non bisogna credere che gli errori siano un‟esclusiva
di Natalia e che, nelle altre traduzioni, non ve ne sia nessuno.
Recentemente mi sono accorto che, in una delle pagine più famose della Recherche, l‟ultima frase di Un amour de Swann, quella in cui il
personaggio, finalmente libero dalla schiavitù dell‟amore/gelosia per
Odette, si rende conto di aver tanto sofferto, fino a desiderare la morte, per una donna che non gli piaceva e che non era il suo tipo, nessuno dei molti traduttori italiani è riuscito a evitare di cadere in una trappola
grammaticale, effettivamente insidiosa. Il testo dice: “Et avec cette
muflerie intermittente qui reparaissait chez lui dès qu'il n'était plus
malheureux et que baissait du même coup le niveau de sa moralité, il
s'écria en lui-même : Dire que j'ai gâché des années de ma vie, etc... ».
Segue la riflessione che ho appena evocato.  
Tutti sappiamo che la parola
“que” è cosa ben diversa da “qui”, cioè che mai, in nessun caso, in francese essa può fungere da pronome relativo soggetto. Potrebbe essere complemento oggetto (ma in tal caso verrebbe meno qualsiasi senso), oppure è la forma da usare quando si vuole introdurre un'ulteriore subordinata: invece di ripetere più volte in modo completo la congiunzione, la seconda (o terza o quarta) volta si usa solamente “que” che in questo caso vale come un nuovo “dès que”. Perciò un corretta, anche se bruttina, traduzione alla lettera potrebbe essere: “Ma con quella grossolanità intermittente che riaffiorava in lui non appena cessava d‟essere infelice e non appena si abbassava contemporaneamente anche il livello della sua moralità, esclamò tra sé, eccetera”. Insomma: il soggetto del verbo
“baissait” (che in questo caso è intransitivo) è posposto, è il “niveau de sa moralité”, non il monosillabo “que” che non può essere pronome relativo ma è congiunzione temporale. Infatti il verbo “baisser” può significare“indebolirsi, decrescere, abbassarsi”, anche se non ha esplicitamente la forma riflessiva.
 
Vediamo come se la sono cavata, in ordine cronologico, i
nostri più o meno famosi traduttori.
Natalia Ginzburg (1946): “E con quella grossolaneria intermittente
che riappariva in lui non appena cessava d‟essere infelice e che nel
momento stesso abbassava il livello della sua moralità, egli esclamò dentro
di sé, eccetera”  . Natalia è caduta nella trappola!
Bruno Schacherl (1946): “E con quella intermittente faccia tosta
che ricompariva in lui appena non era più infelice e abbassava d‟un tratto il
livello della sua moralità, esclamò nel suo intimo: eccetera” . Bocciato!
Armando Landini (1946): “E con quel cinismo intermittente che
riappariva in lui appena non era più infelice e che abbassava nello stesso
tempo il livello della sua moralità, esclamò in se stesso, eccetera...”  .
Bocciato anche Landini!
Due anni dopo, nel 1948, uscì una nuova, prestigiosa traduzione,
firmata da Giacomo Debenedetti (1948). Come se la cava l‟illustre critico
di fronte alla nostra trappola grammatical-sintattica? Ecco. “E, con quella
grossolaneria intermittente che ricompariva in lui appena non era più
infelice, e abbassava al tempo stesso il livello della sua moralità, esclamò
dentro di sé, eccetera”  . L‟illustre professore è anche lui rimandato a
ottobre! In più la parola “grossolaneria”, che – inutile dirlo - proprio non
mi piace, sembra proprio copiata dalla traduzione di Natalia, perché essa
compariva, come si è appena visto, anche nella Ginzburg del 1946 (ed è
stata giustamente corretta, all‟insaputa della permalosa scrittrice, con
“grossolanità”, a partire dal 1974). E questo aggiunge il sospetto del micro-
plagio all‟errore di Debenedetti.
Nel 1965 Oreste Del Buono ritraduce Un amour de Swann per la
Garzanti: “E, con quella saltuaria grossolanità, che ricompariva in lui
appena smetteva di essere infelice e che nello stesso tempo abbassava il
livello della sua moralità, esclamò dentro di sé, eccetera...”.  Anche Del
Buono non supera la prova.
Trascorrono diciotto anni, molte ristampe e “nuove edizioni”, ma
nessuna nuova traduzione, fino a quella di Giovanni Raboni, che esce nel
1983: “E con quella grossolanità intermittente che riaffiorava in lui non
appena finiva d‟essere infelice e che, contemporaneamente, abbassava il
livello della sua moralità, esclamò ... eccetera”. Anche Raboni è caduto
nella trappola! E anch‟io devo fare autocritica, perché allora non me ne
accorsi.
Proseguiamo! Maria Teresa Nessi Somaini (1985): “E con quella
grossolanità intermittente che riappariva in lui non appena non era più
infelice e abbassava nel medesimo tempo il livello della sua moralità, si
disse eccetera...” . Come sopra.
Paolo Pinto (1990): “E con quella grossolanità intermittente che
ricompariva in lui appena non era più infelice, e che abbassava nel tempo
medesimo il livello della sua moralità, esclamò eccetera”  . Neppure Pinto
si è salvato!
Si direbbe che i traduttori italiani conoscano poco il francese.
Vediamo un po‟ se chi ha tradotto nelle altre lingue se l‟è cavata meglio o
no. Nella trappola cadde nel 1920 nientepopodimeno che il grande Scott
Montcrieff , il traduttore inglese: “And with that old, intermittent fatuity,
which reappeared in him now that he was no longer unhappy, and lowered,
at the same time, the average level of his morality, he cried out and so on”.
E vi è caduto anche Pedro Salinas: “Y con esa cazurrería
intermitente que le volvía en cuanto ya no se sentía desgraciado, y que
rebajaba el nivel de su moralidad, se dijo para sí: [...]”
Decisamente sbagliata la traduzione portoghese di Mario Quintana,
la cui prima edizione risale al 1948: “E com essa intermitente grosseria que
lhe voltava logo que ele não mais sofria e que rebaixava o nível de seu
caráter moral, exclamou consigo mesmo...” “adoration perpétuelle”. Queste righe insinuano in noi l‟ipotesi che esista
una proporzionalità diretta tra livello di sofferenza e livello di “moralità”.
Solo la sofferenza consente di raggiungere la verità e l‟autenticità. Perché?
Perché Proust è ancora almeno in parte impregnato della filosofia di
Schopenhauer, secondo cui il punto di vista della rappresentazione e
dell‟apparenza (il velo di Maia) è positivo, ma la dimensione profonda
dell‟essere e del conoscere è Volontà, cioè eterno desiderio inappagato e
quindi dolore. Appena in Swann la sofferenza diminuisce, ecco che in lui
diminuisce anche il livello della “moralità”, intesa come dignità e lucidità
interiori. Solo la sofferenza è salutare per lo spirito, si dirà nel Tempo
ritrovato. Nelle nostre tre righe affiora appena in superficie quello che nel
mio primo libro ho chiamato “Proust inattuale”: uno scrittore che, sia pure
tra molte antinomie, divulga ed enuncia un pensiero radicalmente opposto a
quello dominante ed egemone, un pensiero che ha per momenti “forti” il
rifiuto della storia, il rifiuto della scienza e il rifiuto della dimensione
sociale. E non c‟è da stupirsi se tutti quei traduttori che, in un modo o
nell‟altro, aderiscono a visioni del mondo ostili all‟ “inattualità” e ad essa
estranee, e che tendono quindi ad annettere anche Proust alla “attualità”,
siano più o meno consapevolmente indotti a commettere a questo punto un
“errore”. Non potendo stravolgere il senso della prima parte della frase (“Et
avec cette muflerie intermittente qui reparaissait chez lui dès qu‟il n‟était
plus malheureux ...”) si consolano rovesciando almeno il significato della
seconda parte (“... et que baissait du même coup le niveau de sa
moralité...”). Rovesciamento in che senso? Nel senso che, come causa
dell‟abbassarsi del livello della moralità, i traduttori indicano non la
cessazione del dolore, ma la “grossolanità intermittente”, cioè non una
filosofia sbagliata ma solo un difetto di temperamento..
In parte, potremmo dunque dire. “Mal comune, mezzo gaudio”. Ma
solo in parte perché, come in certe barzellette, in cui ci sono un italiano
pasticcione, uno spagnolo smargiasso, un inglese dandy ma cretino, e infine
un tedesco che non sbaglia mai, a questo errore pressoché universale, si
contrappone la assoluta perfezione della traduzione tedesca di Eva Rechel-
Mertens, rivista da Luzius Keller: “Und mit jener Grobschlächtigkeit, die
bei ihm auftauchen konnte, sobald er nicht mehr unglücklich war und sich
gleichzeitig sein moralisches Niveau senkte, sagte er ...”.  Sarebbe forse il
caso di cantare: “Deutschland, Deutschland über alles”.
Con quel nonnulla di sadismo che è in ognuno di noi e che ci
riempie di gioia nel constatare gli errori altrui, ci siamo attardati in questa
gustosa carrellata di figuracce multinazionali. Il problema però è un altro.
Tutti questi errori a catena sono colposi o dolosi? Sono soltanto il segno di
un‟insufficiente conoscenza della grammatica francese, oppure c‟è
qualcosa di più significativo?
Per rispondere, bisogna stabilire qual è il senso esatto del testo
proustiano. Esso ci dice che Swann è un modello imperfetto. C'è in lui,
come in parte già sappiamo e come si vedrà meglio nel seguito della storia,
un non so che di grossolano, di ingenuo. C'è un pizzico di vigliaccheria che
lo spinge a non guardare in faccia fino in fondo le verità sgradevoli. C'è
un'incapacità di arrivare sino alla piena autenticità interiore, e questo gli
impedisce di fare il salto di qualità da degustatore dilettante di capolavori
letterari, musicali e artistici a vero e proprio artista, in senso creativo.
Avendo paura della verità, non può nemmeno pervenire ad una
apprezzabile profondità filosofica ed estetica. Può solo accumulare “dati
esatti”, senza interpretarli a fondo: resta schiavo del positivismo, e perciò
dell' “idolatria”.
Se vengono tradotte correttamente, le poche righe che stiamo
esaminando aggiungono a tutte queste cose il preannuncio di una tesi che
sarà esplicitata integralmente solo alla fine del romanzo, nella meditazione
estetico-esistenziale del Temps retrouvé , quella che Proust chiamava
“adoration perpétuelle”. Queste righe insinuano in noi l‟ipotesi che esista
una proporzionalità diretta tra livello di sofferenza e livello di “moralità”.
Solo la sofferenza consente di raggiungere la verità e l‟autenticità. Perché?
Perché Proust è ancora almeno in parte impregnato della filosofia di
Schopenhauer, secondo cui il punto di vista della rappresentazione e
dell‟apparenza (il velo di Maia) è positivo, ma la dimensione profonda
dell‟essere e del conoscere è Volontà, cioè eterno desiderio inappagato e
quindi dolore. Appena in Swann la sofferenza diminuisce, ecco che in lui
diminuisce anche il livello della “moralità”, intesa come dignità e lucidità
interiori. Solo la sofferenza è salutare per lo spirito, si dirà nel Tempo
ritrovato. Nelle nostre tre righe affiora appena in superficie quello che nel
mio primo libro ho chiamato “Proust inattuale”: uno scrittore che, sia pure
tra molte antinomie, divulga ed enuncia un pensiero radicalmente opposto a
quello dominante ed egemone, un pensiero che ha per momenti “forti” il
rifiuto della storia, il rifiuto della scienza e il rifiuto della dimensione
sociale. E non c‟è da stupirsi se tutti quei traduttori che, in un modo o
nell‟altro, aderiscono a visioni del mondo ostili all' “inattualità” e ad essa
estranee, e che tendono quindi ad annettere anche Proust alla “attualità”,
siano più o meno consapevolmente indotti a commettere a questo punto un
“errore”. Non potendo stravolgere il senso della prima parte della frase (“Et
avec cette muflerie intermittente qui reparaissait chez lui dès qu'il n'était
plus malheureux ...”) si consolano rovesciando almeno il significato della
seconda parte (“... et que baissait du même coup le niveau de sa
moralité...”). Rovesciamento in che senso? Nel senso che, come causa
dell‟abbassarsi del livello della moralità, i traduttori indicano non la
cessazione del dolore, ma la “grossolanità intermittente”, cioè non una
filosofia sbagliata ma solo un difetto di temperamento.
A conclusione di questo ragionamento, sarei tentato di sostenere la
tesi del tutto paradossale che la distinzione raboniana tra errori di
traduzione colposi e errori dolosi non abbia nessun fondamento perché tutti
gli errori sono sempre in qualche modo dolosi. Nel caso dei boccioli e dei
sostegni, il dolo è evidente. In questo secondo caso, reso clamoroso da
un‟unanimità internazionale quasi assoluta, è più difficile discernere, ma
ciò che a mio parere crea almeno un sospetto di dolo è la presenza di un
movente. Anche questo secondo errore non avviene per puro caso, ha una causa ideologica, può rientrare in un progetto, consapevole o
inconsapevole, di addomesticamento di Proust finalizzato a renderlo
“digeribile” da un vasto pubblico di lettori omogeneizzati, sia nel 1946 sia
oggi, dalla cultura egemone e unidimensionale della Attualità. E allora non
mi stupisce il fatto che sia solo il traduttore tedesco a non sbagliare.
Evidentemente, nella patria di Kant, di Schopenhauer, di Wagner e di
Nietzsche, l'Attualità era ed è un po' meno egemone che altrove.

Io e la grande britannia (parte quarta)

Altre foto dal mio breve soggiorno estivo in Inghilterra.